Una persona a metà del cammino: nel bel mezzo del viaggio, un punto mediano in cui ha già investito il cinquanta percento delle sue possibilità ed è equivalente ciò che le resta.
Una persona di mezza età la collochiamo nell’epitaffio “o muore o risorge”, se non ha messo su famiglia, se non si è già vestita di bianco o nero, se ancora anela al posto di lavoro long life time.
Mezza persona è andata: sulla strada delle delusioni, del/la narcisista maligno/a di turno, della dieta inefficace, dei matrimoni degli altri, dei figli degli altri, dei pranzi con i parenti dove è l’unica dispari al tavolo, delle notti a piangere abbracciando il cuscino che è più allagato di Pescara quando pioviccica.
Molte persone giungono presso lo studio di psicoterapia successivamente alla rottura di un legame di coppia, a volte è l’ennesimo, solo l’ultimo della lista. La domanda con cui arrivano spesso è “cosa non va in me?” oppure “perché mi metto sempre in relazioni disfunzionali?”
Ovviamente dire che non c’è qualcosa di difettato in loro e che non sono rotti, risulta inefficace; è qui che comincia il lungo viaggio della domanda per arrivare alla risposta: l’amore, ma quello pe sé stessi.
Abbiamo bisogno di rispettare tutte le persone e nello stesso tempo di rispettare la nostra personale diversità; è per questo che il mio intento è quello di scrivere sull’amore, sul concetto che ognuno di noi ha di esso, sulle questioni per cui ci leghiamo, su cosa riconosciamo come tale; anche se viviamo la relazione d’amore con sofferenza, non possiamo fare a meno di sentirlo proprio in quel posto, in quel luogo: quella relazione tossica o quell’altra contornata di splendidi unicorni che salutano le caprette che salutano Heidi!
Tra queste due modalità estreme, ci sono tantissimi luoghi diversi e più sfumati che possono essere riconosciuti come amore, ognuno ha un significato preciso d’amore e si innamora proprio di quelle persone che confermano tale senso pregnante della realtà soggettiva che esperisce.
Parlando in modo semplice, possiamo riportare un esempio: se abbiamo fatto esperienze nelle vita che ci faranno sentire e riconoscere l’amore nella distanza, state certi che da adulti non certo ci innamoreremo di un individuo estremamente presente! Ci innamoreremo di una persona che magari è poco affettuosa, oppure si fa sentire poco, oppure ha molte priorità prima del partner, una persona che tiene lontano l’altro dal suo mondo interiore; insomma qualsiasi cosa che faccia percepire che è distante ed è proprio questo che farà battere il muscolo cavo collocato tra i polmoni; non necessariamente la persona in questione dovrà essere stronza o non innamorata o narcisista (va tanto di moda spiegarsi i fallimenti amorosi così), assolutamente no, può essere innamorato e rispettoso, ma muoversi in un modo che fa semplicemente sentire la distanza.
Uno dei primi passaggi che dobbiamo fare è cambiare prospettiva: non ci porterà a nulla dare la responsabilità al partner, continuando a dirci “perché capitano tutti a me”; bisogna che iniziamo a ragionare in termini nuovi: ” io mi lego in modo ricorsivo a certe dinamiche relazionali dolorose, voglio cambiare!”
Se fossimo fortunati tutto questo potrebbe essere ok, ma molto spesso quello che accade è che lotteremmo per portarlo più vicino!
Ovviamente sono sforzi vani, ma quindi perché se riconosciamo l’amore nella distanza vogliamo a tutti i costi portare quella persona (che è il soggetto del mio desiderio) più vicino?
Qui la contorsione raggiunge livelli invertebrati: in realtà quello che ho imparato a riconoscere come amore, è l’effetto che mi provoca la percezione che chi amo e mi ama sia distante.
“mio padre era sempre schivo da un punto di vista affettivo, mi giudicava e non mi parlava molto, non passava molto tempo con me, aveva spesso altre priorità, non mi ha quasi mai detto ti voglio bene, non facevamo attività di famiglia insieme e questo mi faceva sentire di poco valore, mai abbastanza, inadeguata e non meritevole del suo amore, mi sforzavo di essere migliore e sempre prestante, ma non si avvicinava molto di più, magari giusto un po’, ma alla fine so che mi amava”
Sbam, dritto in faccia, seguendo l’esempio, ci si lega a persone che restano un po’ distanti, perché la distanza ci fa sentire inadeguati, mai abbastanza; ed è in quella tensione emotiva che lo sforzo di avvicinare l’altro serve a dimostrare che invece si è adeguati amabili!
Ovviamente ci sono finiti significati che possiamo dare all’amore, anzi c’è un numero preciso, ad oggi questo numero è di 7 miliardi e 800 milioni, ovvero il numero di ogni singolo essere umano. Ciascun individuo ha un suo unico significato, può assomigliarsi a quello di qualcun altro, ma è esclusivo.
Potresti riconoscere l’amore nelle vicinanza, nella fusione, nella svalutazione, nell’adulazione, nella sottomissione, nella dominanza, nella pluralità, nell’esclusività e via dicendo, ma non è tanto il processo, ma ciò che sottende: come mi fa sentire questa cosa?
Il punto è lì: riconosciamo un determinato modo di sentirci come amore e se incontriamo qualcuno che mette in gioco delle modalità in cui sentiamo il fattore X il gioco è fatto.
Cari e care che mi leggete, se di voi avete pensato spesso che non vi fila nessuno, è solamente perché non stimolate i loro complessi edipici e non perché siete poco piacenti!
Scivolate psicoanalitiche a parte, la domanda che spesso ci poniamo è “posso cambiare questo significato? Posso innamorarmi solo di persone con cui mi sento la rosa più bella del deserto?”
Ho lasciato Bowlby che litiga con un sacco di gente su questa domanda, me lo immagino un po’ così: Jhon che batte i pugni sul tavolo IKEA urlando “dalla culla alla tomba, non possiamo cambiare i modelli di attaccamento!”; un sacco di gente indignata che subisce il colpo come una condanna a morte, prova a controbattere dicendo che la psicoterapia può riuscirci, ma lui il mio caro Jhon insieme alla sua Mary, dicono le ultime parole famose “spera di non essere un disorganizzato e accontentati della tua ambivalenza o evitamento”. La platea tace e inizia la ricerca dell’unico bambino nell’universo che abbia un attaccamento sicuro, indice di uno sviluppo sano e funzionale.
Tornando a noi, non so se la pia anima di Jhon avesse ragione, se davvero il significato che attribuiamo al mondo, dai zero ai tre anni è irreversibile, quindi potendo solo costruirci sopra e renderlo più flessibile, ma una cosa è certa: Secondo l’esperienza clinica fino ad ora maturata e gli studi professionali che ho intrapreso c’è un margine di flessibilità, in cui comprendendo e modificando i nostri significati personali, possiamo dirigerci verso scelte più funzionali e piacevoli, anche riguardo la scelta del partner. Non è un processo immediato, non ci sono percorsi fast, c’è solo un processo più o meno lungo e più o meno impegnativo.
Paolo Coelho scrisse in “undici minuti”, citando Emily Dickinson: “che l’amore sia tutto, è tutto ciò che sappiamo dell’amore”,
io scrivo in modo un po’ provocatorio: “tutto ciò che sappiamo dell’amore è che l’amore è lutto”. Le relazioni sono caratterizzate da tre momenti: costruzione, mantenimento e rottura dei legami; tutto ciò che ci sforziamo di fare è evitare la separazione, è evitare il lutto, ma per schivare il tuo più grande nemico, devi tenerlo sempre presente, alla mente e al corpo e magari imparare che non è l’altro, ma il nemico da affrontare a volte è dentro di te ed è il significato con cui attribuisci senso al mondo, alle relazioni e agli aventi.